domenica 25 novembre 2012

“Tre colori: Film blu” di Krzysztof Kieslowsky: un complesso esame psicologico della libertà individuale.


Leone d’oro per miglior film alla Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia del 1993 ( in ex aequo con “America oggi” di Robert Altman ), “Film blu” di Krzysztof Kieslowsky è la prima delle tre pellicole dedicate dal regista polacco ai colori della bandiera francese e, conseguentemente, ai principi divulgati dalla rivoluzione del 1789.
Protagonista assoluta di questa sofferta storia di rinascita è una magnifica Juliette Binoche che, grazie alla sua intensa interpretazione, quello stesso anno a Venezia si aggiudicò la “Coppa Volpi” per la migliore attrice.
Julie (Juliette Binoche) sta viaggiando con il marito Patrice (Hugues Quester), un noto compositore, e la figlia di sette anni, quando la loro auto finisce fuori strada, schiantandosi contro un albero.
Al risveglio in ospedale apprende dai medici che entrambi i suoi congiunti sono deceduti.
L’immenso dolore per la perdita dei suoi cari la spinge immediatamente al suicidio; tenta infatti di ingerire alcuni medicinali che ha trovato in infermeria  senza però riuscire nel proprio intento.
Successivamente, nell’errata convinzione di poter soffocare il proprio dolore liberandosi di tutti i ricordi che la legano al passato, Julie decide di mettere in vendita la villa dove fino a poco tempo prima abitava con la sua famiglia, e si trasferisce a Parigi in un piccolo appartamento.
Provvede inoltre a distruggere la partitura musicale a cui Patrice stava lavorando prima della sua morte: un concerto per la celebrazione dell’Unione Europea.
Per il solo fatto di esistere Julie è comunque costretta a confrontarsi quotidianamente con il proprio passato e, soprattutto, con il proprio dolore.
Riesce a ritrovare il senso della vita solamente dopo aver appreso, per caso, che il marito aveva un’amante; e poiché quest’ultima è in attesa di un figlio da lui, Julie decide di lasciarle la villa di famiglia.
Infine, dopo aver scoperto che Olivier (Benoît Régent) l’ultimo collaboratore di Patrice, da sempre innamorato di lei, sta lavorando alla partitura incompiuta del marito, di cui aveva conservato una copia, Julie  lo aiuta a completarla e, soprattutto, ne accetta finalmente l’amore.



E’ un complesso esame psicologico della libertà individuale quello che il regista polacco ci presenta in questa pellicola dedicata al “blu”, uno dei tre colori della bandiera francese.
Attraverso un tortuoso, nonché sofferto, percorso interiore, Julie si trova costretta, suo malgrado, ad elaborare il lutto per la perdita del marito e della loro unica figlia.
Nel tentativo di emulare la madre, la quale, avendo perso la memoria, vive esclusivamente nel presente senza alcuna possibilità di soffrire ripensando al passato, Julie crede di poter evitare le dolorose conseguenze della tragedia che l’ha inaspettatamente travolta, allontanando da sé tutto ciò che in un modo o nell’altro possa riportarle alla mente la propria famiglia.
Il suo è un desiderio di affrancarsi dall’amore che un tempo la legava al marito e del quale, per non soffrire, non vuole sentirsi più prigioniera; è solamente nel momento in cui viene a sapere che lui  aveva una relazione extra-coniugale che la donna acquisisce una nuova consapevolezza di sé e del proprio futuro.
Il suo atto di generosità nei confronti dell’amante di Patrice segna infatti una svolta determinante nella vita di Julie, che la porterà a sentirsi finalmente libera e a riprendere in mano le redini della propria esistenza.
Durante la visione della pellicola sono molteplici i riferimenti al colore blu.
Blu è la carta di una caramella che la figlia di Julie fa sventolare fuori dal finestrino dell’auto sulla quale sta viaggiando insieme ai suoi genitori; blu è l’acqua della piscina dove la donna si reca spesso a nuotare; blu infine è la luce che avvolge e illumina il personaggio interpretato dalla Binoche in determinati momenti del film, sottolineati dal suggestivo tema musicale composto da Zbniew Preisner, le cui parole sono tratte dalla prima lettera di San Paolo ai Corinzi, e asseriscono l’importanza dell’amore su tutto il resto.




Titolo: Tre colori: Film blu ( Trois couleurs: Bleu )
Regia: Krzysztof Kieslowsky
Interpreti: Juliette Binoche, Benoît Régent, Emmanuelle Riva
Nazionalità: Francia / Polonia
Anno: 1993

sabato 17 novembre 2012

“La calda amante” di François Truffaut: un dramma borghese che lentamente si tinge di noir.


Sebbene oggi sia ritenuta dai critici cinematografici una delle pellicole più intense di François Truffaut, “La calda amante” si rivelò in realtà un vero e proprio fiasco al momento della sua presentazione al Festival di Cannes del 1964.
Tra gli interpretati principali spicca l’indimenticabile Françoise Dorléac, la bellissima ma altrettanto sfortunata sorella di Catherine Deneuve, morta prematuramente in un incidente stradale nel 1967.
Pierre Lachenay (Jean Dasailly) è un scrittore ed editore di successo, che vive a Parigi insieme alla moglie Franca (Nelly Benedetti) e alla figlia Sabine.
Durante un viaggio in aereo a Lisbona, dove è atteso per una conferenza, si invaghisce della giovane Nicole (Françoise Dorléac), una delle hostess di quel volo, la quale, da parte sua, si dimostra tutt’altro che insensibile al fascino del rinomato scrittore.
Dopo aver trascorso la notte insieme, i due decidono di continuare a frequentarsi, nonostante le difficoltà che devono affrontare per potersi incontrare. Nicole, infatti, non può ospitarlo nella camera dove vive in affitto; mentre Pierre, legato ancora alla propria famiglia, vive clandestinamente la sua relazione con la giovane hostess.
Dovendosi  recare a Reims per la presentazione di un film, Pierre decide di portare Nicole con sé; dopo una serie di spiacevoli imprevisti, che purtroppo li tengono separati, i due riescono finalmente a  rifugiarsi in un piccolo albergo di campagna.
Rientrati a Parigi, mentre Nicole esprime a Pierre la propria intenzione di interrompere la loro relazione, quest’ultimo deve invece far fronte alle domande di Franca, che nel frattempo ha iniziato a sospettare dell’infedeltà del marito; a poco a poco il loro rapporto degenererà fino alle estreme e tragiche conseguenze…


Dopo l’eclatante successo di “Jules et Jim”, pubblico e critica si aspettavano da Truffaut un’altra pellicola che in qualche modo ne ricalcasse le tematiche; il regista invece, sorprendendo e soprattutto deludendo tutti quanti, si presentò con “La calda amante”: un film in cui la narrazione dell’amore perde i toni spensierati tipici della giovinezza per caricarsi di quelli cupi e decisamente più complessi di una storia di adulterio.
La pellicola tratta infatti di un sofferto triangolo amoroso destinato a finire in tragedia e, nonostante sia stata girata quasi mezzo secolo fa, oggi ci appare tutt’altro che datata per la raffinata narrazione  dei profili psicologici dei soggetti coinvolti nella vicenda.
In una sceneggiatura che non brilla per originalità per quasi l’intera durata della pellicola, il modo in cui viene sviluppato il personaggio della moglie riesce a spiazzarci e, contemporaneamente, a far virare inaspettatamente il genere del film dal melodramma al noir.
Sebbene Franca ci venga presentata come l’elegante e premurosa moglie di un imprenditore di successo, rivestendo una funzione quasi decorativa, è però nel momento in cui prende coscienza dell’infedeltà del marito che assume immediatamente un diverso spessore, al punto che la vediamo  meditare lentamente e attuare con freddezza l’omicidio di Pierre.
Girato in poco più di due mesi tra Parigi, Orly, Reims e Lisbona, “La calda amante” uscì in Italia in una versione tagliata di circa venti minuti rispetto a quella francese e, soprattutto, con un titolo che non aveva nulla a che vedere con il messaggio che desiderava lanciare quello originale, la cui traduzione recita “La pelle morbida”.



Titolo: La calda amante ( La peau douce )
Regia: François Truffaut
Interpreti : Jean Desailly, Françoise Dorléac, Nelly Benedetti, Daniel Ceccaldi
Nazionalità: Francia
Anno : 1964


domenica 11 novembre 2012

“Lezioni di felicità” di Eric-Emmanuel Schmitt: come imparare a essere ottimisti e a sorridere alla vita.



Scritto e diretto dal drammaturgo francese Eric-Emmanuel Schmitt, “Lezioni di felicità” è un vero e proprio inno all’ottimismo e alla gioia di vivere.
Grazie alle magistrali interpretazioni di Catherine Frot e Albert Dupontel, nonché alla stupenda colonna sonora del maestro Nicola Piovani, questa pellicola ci permette di rifugiarci, sebbene momentaneamente, in un mondo in cui sembra che tutte le storie abbiano sempre un lieto fine
Odette Toulemonde (Catherine Frot) è una quarantenne dall’aspetto piacente, che dopo la morte del marito non si è più risposata.
Vive in un alloggio popolare a Charleroi, insieme ai due figli, Rudy (Fabrice Murgia) e Sue Helen (Nina Drecq), e al fidanzato di quest’ultima.
Lavora nel reparto profumeria di un grande magazzino e coltiva una grandissima passione per i romanzi dello scrittore Balthazar Balsan (Albert Dupontel), dai quali deriva il suo sconfinato ottimismo, sebbene la sua vita non sia stata sempre facile.
Balthazar Balsan invece, sebbene possa dire di avere tutto, non è felice.
Dopo aver ricevuto una pesante stroncatura al suo ultimo libro da parte di Olaf Pims (Jacques Weber), un famoso critico letterario parigino, ed aver scoperto che quest’ultimo ha una relazione con sua moglie, lo scrittore tenta di suicidarsi senza però riuscire nel proprio intento.
Una commovente lettera scrittagli da Odette, nella quale gli esprime tutta la sua ammirazione, lo spingerà a mettersi subito sulle tracce della donna; il loro incontro segnerà una svolta inaspettata nelle vite di entrambi…



Prendendo spunto da un episodio realmente accadutogli, Eric-Emmanuel Schmitt ha realizzato una pellicola, forse eccessivamente buonista, la cui visione ha comunque il pregio di riuscire a rincuorarci, soprattutto durante quei giorni in cui ci sembra che tutto vada storto.
E’ ovviamente una storia a sfondo favolistico in cui assistiamo all’inaspettato incontro di due mondi diametralmente opposti, e dove la semplicità e il buonumore che contraddistinguono la giornate di Odette riescono ad annientare lentamente la negatività che assilla l’esistenza di Balthazar, facendogli al tempo stesso acquisire una nuova prospettiva della vita e salvandolo così da quell’autodistruzione alla quale sembrava inevitabilmente destinato.
La leggerezza che pervade “Lezioni di felicità” è sottolineata dal sapiente inserimento di divertenti siparietti musicali, durante i quali Catherine Frot e i suoi comprimari danzano allegramente  sulle note di alcune delle più celebri canzoni dell’indimenticabile Josephine Baker; oltre a ciò, durante la visione del film ci capita spesso di veder volare Odette nei cieli di Charleroi, come se fosse una moderna Mary Poppins, ogniqualvolta si sente particolarmente felice.
Una menzione particolare spetta inoltre alla colonna sonora composta dal pluripremiato Nicola Piovani, la cui raffinata e malinconica melodia riesce a valorizzare ulteriormente le riuscite interpretazioni di un cast ben affiatato, in cui ritroviamo attori francesi e belgi.



Titolo: Lezioni di felicità ( Odette Toulemonde )
Regia: Eric-Emmanuel Schmitt
Interpreti : Catherine Frot, Albert Dupontel, Jacques Weber, Fabrice Murgia, Nina Drecq
Nazionalità: Francia / Belgio
Anno : 2006


lunedì 5 novembre 2012

“Fino all’ultimo respiro” di Jean-Luc Godard: Parigi, gli anni 60 e… la Nouvelle Vague.


Fino all’ultimo respiro” è il primo lungometraggio di Jean-Luc Godard; tratto da un soggetto di François Truffaut, e realizzato sotto la supervisione tecnica di Claude Chabrol, è considerato il film-manifesto della Nouvelle Vague francese.
Al fianco di un superbo Jean-Paul Belmondo, troviamo una giovanissima Jean Seberg: la graziosa attrice americana che questa pellicola consacrò icona di stile degli anni sessanta.
Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo) è un giovane balordo che vive di espedienti, barcamenandosi tra furti e truffe.
Dopo aver rubato l’ennesima auto a Marsiglia, prima di fuggire in Italia si reca a Parigi per recuperare da un amico del denaro che gli spetta.
Inseguito da due agenti per eccesso di velocità, ne uccide uno con una pistola che ha trovato nel cruscotto dell’auto.
Arrivato a Parigi, dopo aver ritrovato Patricia Franchini (Jean Seberg), una studentessa americana della quale si era precedentemente innamorato, cerca di convincerla ad andare con lui in Italia.
La ragazza però, sebbene non sembri disdegnare le attenzioni di Michel, non ha nessuna intenzione di seguirlo, non approvando il suo stile di vita dissoluto.
Poco dopo Michel apprende dai giornali di essere ricercato dalla polizia, che nel frattempo ha interrogato Patricia, essendo stata vista insieme a lui.
L’americana, nel tentativo di farlo fuggire prima che venga arrestato, decide di denunciarlo rivelando il luogo in cui Michel si è nascosto.
Raggiunto dalla polizia, l’uomo tenta di fuggire ma inutilmente; muore infatti sotto lo sguardo contrito di Patricia, dopo essere stato colpito da un agente.



Girato tra Parigi e Marsiglia in poco meno di un mese e con un budget alquanto limitato, con “Fino all’ultimo respiro”  Jean-Luc Godard reinventò il modo di fare cinema, mettendo in pratica quella volontà di opporsi alle rigide regole che avevano caratterizzato fino ad allora l’industria cinematografica francese, secondo quanto rivendicato dallo stesso Godard e dagli altri registi fondatori del movimento della Nouvelle Vague.
In nome di una libertà di espressione che abbracciava anche la realizzazione tecnica di un film, durante le riprese scomparve infatti l’uso di cavalletti e binari; basti ricordare che per girare la celebre scena in cui Michel e Patricia passeggiano l’una accanto all’altro sugli Champs-Elysées, il regista si avvalse di una macchina da presa installata su di una bicicletta.
Caratterizzato da una sceneggiatura alquanto esile, “Fino all’ultimo respiro” è un omaggio ai vecchi polizieschi americani, di cui Godard era un grande appassionato.
Il personaggio di Michel, interpretato magnificamente da un giovane Jean-Paul Belmondo, sebbene viva costantemente sopra le righe, nasconde in realtà un lato estremamente tenero come ci è dimostrato dal suo affetto per Patricia; affetto che gli impedisce perfino di mettersi in salvo, e quindi di allontanarsi da lei, nel momento in cui la ragazza gli rivela di averlo denunciato alla polizia.
Fa da sfondo a questa sfortunata storia d’amore, una Parigi che affascina nonostante l’immagine estremamente semplice che ci viene restituita da una fotografia in bianco e nero ridotta all’essenziale, e che è indubbiamente rappresentativa di un’importante fase di transizione nella storia politica e culturale della Francia.


  
Titolo: Fino all’ultimo respiro ( A bout de souffle )
Regia: Jean-Luc Godard
Interpreti : Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg, Daniel Boulanger, Jean-Pierre Melville
Nazionalità: Francia
Anno : 1960